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il Pane

Indirizzo: Piemonte

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Oggi si fa presto a dire pane, per parafrasare il celebre libro di Piero Califfi Si fa presto a dire fame. E’ così legato al quotidiano, così ovvia la sua presenza sulla nostra tavola che non ci badiamo quasi più, se non per osservare svagatamente, ogni tanto, che non è più quello di una volta, come le stagioni… Per noi italiani, è ancora l’alimento fondamentale.” Così inizia la prefazione di Orlando Perera al testo “Pane Nostro”, una ricerca, dove lo stesso Perera mette a fuoco i diversi problemi, in tema di qualità e di difesa delle tradizionali produzioni della panificazione piemontese, definendo un complesso mondo produttivo in cui operano artigiani sorretti da competenza e passione.

Si possono scrivere, e si sono scritti, interi volumi sulla storia del pane, sui simbolismi che lo circondano e sulle infinite varietà esistenti. Dalle prime rudimentali focacce agli eleganti pani rinvenuti nelle tombe egizie, dalla lievitazione alla modellazione in forme fantasiose e all’aggiunta di condimenti e spezie, tutto testimonia la costante ricerca per selezionare il frumento e fare del pane non solo una fonte di nutrimento abbondante ed economica ma anche un piacere per il palato. E poi c’è la magia di una gestualità millenaria, della pasta che prende forma e vita con la lievitazione, e di quella fragranza inconfondibile a qualsiasi latitudine in qualsiasi epoca. Senza dimenticare il valore culturale del pane. Basta frugare per qualche istante fra i ricordi di scuola, ed ecco affiorare in ordine sparso una quantità di immagini. Mistico-religiose, come il pane azzimo consumato durante il Seder della Pasqua ebraica a ricordo dell’affrettata fuga dall’Egitto, oppure i simbolismi dei riti eucaristici, i racconti evangelici e così via; storiche e letterarie, come gli assalti ai forni di manzoniana memoria, o le brioches che tanto costarono a Maria Antonietta (almeno stando all’aneddotica spicciola); della fantasia e del folclore, come le briciole di pane disseminate dai soliti, vessatissimi bambini delle fiabe. La panificazione è più o meno coeva all’inizio della coltivazione dei cereali, e risale all’incirca a diecimila anni fa, quindi al Neolitico, quando si iniziarono ad assemblare poltiglie con cereali (miglio e orzo i più antichi fra quelli conosciuti) che venivano schiacciati e impastati con acqua; forse qualcuno lasciò questo intruglio troppo vicino al fuoco, scoprendo che il calore lo faceva asciugare e ne migliorava il sapore. Il pane, le cui origini vanno collocate in Mesopotamia, fra gli attuali Turchia, Iran e Iraq, ha avuto un ruolo fondamentale nell’evoluzione dell’agricoltura, quindi nello sviluppo delle società stanziali e delle civiltà, costituendo per tutti il principale degli alimenti di base. È opinione comune che siano stati gli Egizi a scoprire la lievitazione, e probabilmente anche qui il caso ebbe un suo ruolo, nella forma di un pezzo di pasta dimenticato e poi fatto cuocere assieme ai pani del giorno successivo coi risultati che ben conosciamo: aumento di volume, profumo, sapore. Greci e Romani perfezionarono la pratica, moltiplicando le varietà di pani: i Greci ne conoscevano settantadue tipi diversi, tutti in qualche modo collegati a questa o quella divinità, e presso i Romani la panificazione assunse anche aspetti rituali, tanto che dei forni furono costruiti anche nei templi e i pistores (mugnai, fornai) divennero una sorta di casta preposta alla panificazione in cui il mestiere e relativi segreti venivano trasmessi di padre in figlio. Inoltre, “Pistor” era anche uno degli appellativi del dio Giove.

Anche nell’antichità, dunque, la gamma e il prezzo dei pani erano vastissimi, a seconda del tipo e qualità della farina, della presenza di condimenti, del luogo di produzione. Ad esempio, il pane con il sale era piuttosto comune in città e villaggi marini, dove si panificava usando direttamente l’acqua del mare, ma altrove diventava un bene raro e pregiato. E se i Romani, perfezionando i metodi di macinazione, furono i primi a realizzare una sorta di pane bianco, di fatto la panificazione non conobbe mutamenti radicali fino al XVII secolo, quando si isolò il lievito, che ridusse notevolmente il tempo di lievitazione. Fino ad allora, infatti, l’unica lievitazione conosciuta era quella naturale, che durava non meno di venti ore ed avveniva grazie all’aggiunta all’impasto di una parte di quello avanzato dalla panificazione precedente. Era il metodo della “pasta madre”, o pasta acida, o lievito madre, a sua volta ottenuto mescolando acqua e farina e stimolando la fermentazione con l’aggiunta di polpa di frutta matura (o anche, in passato, ingredienti assai meno nobili). Con la rivoluzione industriale, anche la panificazione è toccata dai cambiamenti tecnologici generali. Si perfeziona l’arte molitoria: i cereali sono macinati dall’azione di rulli e non più soggetti ad un forte attrito, evitando così il surriscaldamento e migliorando la qualità; l’eliminazione completa della crusca facilita la realizzazione del pane bianco, meno nutriente ma che diventa una sorta di status symbol, poiché da secoli questo tipo di pane bianco era considerato un prodotto di particolare pregio. Solo in tempi recenti si è avuta una generale “riabilitazione” dei pani integrali, tradizionalmente “pani da poveri”, e delle loro proprietà nutrizionali. Sarebbe impossibile, in questa sede, dare conto di tutte le tradizioni panificatorie e delle preparazioni assimilabili al pane sviluppatesi nel corso dei secoli, ma potrà essere interessante vedere come, anche in Piemonte, le varietà di pane siano nate non solo e non tanto in risposta ai gusti, ma per l’esigenza di trarre pane dai materiali che il territorio era in grado di fornire. È infatti evidente che, soprattutto nelle località montane meno accessibili, uno dei problemi principali era legato all’approvvigionamento dei cereali, e questo portò a creare pani con più tipi di cereali variamente miscelati. Di conseguenza, si determinò una sorta di gerarchia dei pani, solitamente collegata alla percentuale di farina bianca di frumento contenuta. Tipico il caso dell’alta Valle di Susa, ma anche dell’alto Canavese o altri territori montani, dove il pane bianco era un lusso riservato alle feste, mentre all’estremo opposto si trovava il pane nero, di segale (oggi costosa specialità realizzata, in purezza o in variabile mistura con farina di grano tenero, da ben pochi fornai). Fra i due si trovava il “Pan Barbarià”, forse il più comune, fatto con una miscela di segale e frumento in proporzioni variabili. Con lo stesso principio, altrove si facevano il pane di castagne – alimento fondamentale, e in molti casi pressoché unico, di varie popolazioni delle zone prealpine e delle medie valli – il pane di meliga o il pane di riso.
Come in tutte le società rurali, in molti paesi e borghi del Piemonte era prassi comune la panificazione collettiva nel forno pubblico, che avveniva periodicamente e di cui con debito anticipo veniva dato annuncio. La panificazione era un’incombenza pesante e tipicamente femminile. Le donne preparavano in casa le pagnotte e poi le portavano a cuocere nel forno del paese, seguendo turni regolati da un pubblico funzionario incaricato del funzionamento e manutenzione del forno stesso e al quale spettava quale compenso una percentuale del pane misurata in base al numero di pagnotte cotte da ciascun utente. Oppure, in mancanza di questa figura, gli abitanti si occupavano direttamente dell’accensione del forno e della cottura del pane, e poiché il forno era grande e il suo riscaldamento richiedeva notevole dispendio di legna, un’attenta turnazione assicurava un’equa ripartizione dei costi di gestione. Per riconoscere i propri pani dopo la cottura, le famiglie lo contrassegnavano, da crudo, col coltello oppure col marca-pan, una sorta di timbro che veniva impresso sulla pasta lievitata ed era diverso per ogni famiglia. Anche il lievito era collettivo. Era conservato a turno dalle famiglie, che provvedevano poi a suddividerlo e a farlo crescere fino a ottenere la quantità necessaria. Le modalità di mantenimento e impiego di questa pasta madre, in piemontese alvà, sono infatti particolari: innanzi tutto, la “madre” va mantenuta in vita con regolari rinfreschi, che consistono nel rimuovere la crosta che si forma all’esterno e nel reimpastare il tutto con aggiunta di acqua e farina, avvolgendola poi in un telo di cotone legato con uno spago fino al momento del nuovo utilizzo. Inoltre, di questo lievito madre si deve usare una quantità assai maggiore rispetto al lievito di birra – fino a un terzo dell’impasto totale – e i tempi di lievitazione sono decisamente più lunghi, in media una ventina di ore. È evidente che le esigenze del mercato oggi hanno reso questa panificazione estremamente rara, e il lievito naturale è in genere sostituito dal lievito di birra, che riduce i tempi di lievitazione a poche ore. Tuttavia, in anni recenti la panificazione tradizionale è stata al centro di un rinnovato ritorno di interesse, alimentato anche dalla rivalutazione nutrizionale delle farine integrali e di una vasta gamma di cereali. Questa tendenza ha coinvolto sia i processi di lavorazione sia le materie prime, ed il risultato più tangibile è stata la nascita di aziende la cui produzione è conseguenza diretta di un accurato lavoro di ricerca rispetto alle lavorazioni tradizionali, dall’impasto alla struttura del forno. Non solo, ma questa ricerca ha anche portato al recupero di antiche coltivazioni a rischio di estinzione.
Le varietà di pane in Piemonte sono moltissime, e alcune hanno nomi e origini curiosi: fra le più diffuse ricordiamo la classica Biova, ideale per la soma d’aj (bruschetta); o la Campagnola, tipica del Cuneese, che è un pagnottone fragrante, da affettare. I termini dialettali “Grissia” e “Mica” indicano genericamente una pagnotta, mentre altre denominazioni si riferiscono alla forma, dal Tursùn (“pane ritorto, attorcigliato”) alla Malfaita. Interessante poi il caso della Munizione, che deriva dal pane che veniva distribuito giornalmente ai soldati sabaudi, costituendone quindi la razione, o munizione appunto, quotidiana. Infine, i pani speciali, come il Pan Robi o il pane nero di Coimo, o il famoso Pane di Carlo Alberto, specialità di Agliano, insaporito con acciughe e noci.

Non possiamo che concludere con i grissini, antica specialità piemontese. La loro origine è probabilmente anteriore, ma di sicuro si affermarono alla fine del XVII secolo, quando furono usati come farmaco per guarire il piccolo erede al trono. Il futuro Vittorio Amedeo II era infatti debole e malaticcio, perché affetto da un’infezione intestinale cronica aggravata dal pane dell’epoca, che pur essendo il pane “bianco” dei nobili, era cotto poco e male e soprattutto reso insalubre dagli inesistenti criteri igienico-sanitari dell’epoca. Pozioni e intrugli medicamentosi si rivelarono del tutto inefficaci, fino a quando il medico di corte, originario della Valle di Lanzo, osservò che egli stesso era guarito dal medesimo disturbo sostituendo alle pesanti pagnotte semicrude un “pan biscotto” sottile e croccante. Fu così che il fornaio Antonio Brunero realizzò il ghersino, “un pane sottile, lungo fino a un metro”. “Ghersino”, da cui “grissino”, in quanto versione ridotta della Ghersa, o Grissia, cioè della pagnotta classica. Le varietà principali di grissini piemontesi sono i rubatà e gli stirati. Assistere alla loro realizzazione è davvero affascinante, perché i panettieri esperti compiono con estrema naturalezza e apparente facilità operazioni tutt’altro che semplici. I rubatà, il cui nome significa “rotolati” si fanno con pasta tagliata a striscioline che vengono fatte rotolare sulla spianatoia, sotto il palmo delle mani, ottenendone dei grissini di media lunghezza. I grissini stirati, sottili e friabilissimi, si ottengono tendendo la pasta con un unico gesto fino a raggiungere una lunghezza pari all’estensione delle braccia del fornaio.
fonte: Regione Piemonte
Bibliografia
– Pane Nostro di Orlando Perera, Daniela Piazza Editore – Regione Piemonte 2003
-“Piemonte Eccellenza Artigiana – Quaderno sull’artigianato alimentare”, a cura di Lucilla Cremoni, Michelangelo Carta Editore – Regione Piemonte 2004
-Documentazione informativa realizzata dall’Associazione Artigiana Panificatori della Provincia di Torino

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