Indirizzo: Piemonte
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Le Carni bovine astigiane sono ricercatissime per i piatti più tradizionali della cucina piemontese: carne cruda, appena condita con olio e sale o con il tartufo, vitello tonnato, lingua di vitello in salsa verde (bagnet), Bollito di bue grasso con polenta “concia” (con formaggio filante), arrosti di vitello e brasati al barbera o al barolo.
La razza regina è la Piemontese di altissima qualità, ottenuta anche grazie ad un allevamento che ha mantenuto intatto secondo le tradizioni più antiche. Questo carne ha un bassissimo tasso di colesterolo ed è riconosciuta tra le migliori a livello nutrizionale dai dietologi a livello internazionale.
La carne del bovino adulto (bue grasso) è sicuramente l’ingrediente principe del Bollito Misto.
Il Fritto misto alla piemontese (fricia) è legato al rito della macellazione del maiale e alla necessità di non sprecare nulla, annovera le interiora, i sanguinacci, il polmone (fricassà bianca), il fegato (fricassà nèira), le animelle; col tempo si è arricchito di nuovi ingredienti e numerose sono le versioni: tipici del Monferrato sono i fiori di zucca e gli amaretti.
La Finanziera deriva il suo nome dall’abito, chiamato proprio finanziera, abitualmente indossato nel 1800 dai banchieri e dagli uomini di alta finanza, ai quali sembra che questo piatto piacesse molto; altre fonti suggeriscono invece l’origine del nome nel tributo in natura pagato dai contadini alle guardie (i finanzieri, appunto) per entrare in città. Tributo composto principalmente dalle frattaglie dei polli, ancora oggi fra gli ingredienti fondamentali.
Menzione particolare va ai Salumi per cui è stato predisposto un disciplinare delle Eccellenze Artigiane. La tradizione del consumo di salumi è antichissima e le lavorazioni ad essi collegate utilizzano, da secoli, quasi esclusivamente carne suina. Se è vero che a volte, per esigenze proprie o su richiesta di clienti, vengono prodotte piccole quantità di salumi che impiegano parti magre di altri animali come l’asino o il cinghiale, è innegabile che sia il maiale, in Piemonte ed altrove, il vero protagonista. Da migliaia di anni questo animale è uno dei più fedeli amici dell’uomo; ha sempre vissuto al suo fianco e con tutta probabilità è stato il primo animale addomesticato a fini esclusivamente alimentari. Buoi, cavalli, capre e pecore, infatti, venivano allevati in quanto animali da lavoro e fornitori di prodotti, e macellati solo quando non più in grado di produrre, completando così un ciclo biologico ed esistenziale in cui nulla veniva sprecato. Il maiale, invece, durante l’allevamento non forniva nulla ed era, di fatto, una bocca vorace da sfamare; ma l’investimento veniva ampiamente ripagato da una provvista di cibo in grado di assicurare la sopravvivenza sino alla fine dell’inverno. Le sue origini si perdono nella notte dei tempi, ma è certo che è sempre stato uno degli animali più apprezzati dall’uomo. Ovidio, nelle Metamorfosi, afferma che gli uomini nell’età dell’oro erano vegetariani ma, aggiunge, che la prima carne che essi mangiarono fu quella proveniente dal maiale. Inizialmente, il bestiame veniva allevato unicamente per soddisfare le necessità della famiglia o del villaggio; solo in epoca etrusca iniziano a prendere vita le prime forme di allevamento stabile, specializzato e finalizzato anche al commercio. Una forte testimonianza arriva dagli scavi di Forcello, V secolo a.C., nel mantovano, dove furono ritrovati 50 mila resti di ossa animali, di cui il 60% di suini. Dal loro studio è emerso che appartenevano a maiali di circa due o tre anni di vita e che mancavano gran parte degli arti inferiori. Nasce forse, allora, il concetto di salume. In epoca romana l’interesse si concentra progressivamente sulla coscia di suino; la sua produzione registra una sempre più precisa messa a punto della materia prima e dei metodi di trasformazione.
Il prosciutto diventa l’elemento di maggior pregio ricavato dal suino, protagonista di innumerevoli occasioni di incontro e di festa. Varrone scrisse che “…Nella dispensa di un proprietario terriero non possono mancare salumi e quarti di maiale…”; questo per dire che i romani furono grandi mangiatori di maiali e salumi. Con le successive invasioni barbariche il suino diventa una delle risorse più importanti del villaggio e delle campagne, sotto forma di insaccati e di carni conservate; prosciutti, spalle e pancette diventano addirittura moneta corrente.
Il Medioevo fu un’epoca in cui la gente ebbe a soffrire carestie e stenti a non finire, soprattutto a causa delle scorribande di popolazioni considerate “barbare” dai Romani; eppure, l’arrivo di questi barbari, i Longobardi prima, i Franchi poi, non fece che assecondare la nostra già consolidata tradizione determinando, al confine con Bologna, una linea di netta separazione tra la Longobardìa e quella Romanìa bizantina che invece preferiva la carne di pecora e di capra. Nel Medioevo il pascolo del suino ha un rilievo particolare, al punto che i boschi sono misurati in base alla loro capacità di nutrire suini, più che in base alla loro superficie.
È ben noto che l’Editto di Rotari, del 643, puniva l’uccisione del magister porcarius con la massima multa, due volte e mezzo la multa per l’uccisione di un servo massaro. Col passare dei secoli l’allevamento del suino e il consumo dei prodotti da esso derivati, assumono progressivamente maggiore importanza passando dai trionfi rinascimentali, in cui si sviluppa l’arte gastronomica e il suino compare sulle tavole dei banchetti più sontuosi, fino al diciannovesimo secolo, in cui si assiste al sorgere ed alla diffusione dei primi laboratori alimentari e delle prime salumerie. In Italia, tra il XII e il XVII secolo, si osserva un forte sviluppo dei mestieri legati alla trasformazione delle carni del maiale. In quel periodo si affaccia la figura del norcino che, grazie alla sua abilità, dà vita alla creazione di nuovi prodotti di salumeria. Tali figure professionali iniziano a organizzarsi in corporazioni, o in confraternite, ed assumono importanti ruoli all’interno della società di quel tempo. La loro attività, però, era stagionale, in quanto il maiale veniva ucciso una volta all’anno e non esistevano ancora tecniche di conservazione della carne fresca. I norcini lasciavano le loro città ai primi di ottobre per farvi ritorno alla fine di marzo, quando riprendevano il loro lavoro quotidiano di vendita di paglia o di articoli da giardinaggio. La figura del norcino mantenne intatta la propria fama sino all’indomani della fine della II Guerra Mondiale. Oggi, l’eredità dei norcini è passata agli artigiani e al mondo dell’ industria alimentare, sempre pronta a dar vita a produzioni innovative, recuperando anche antiche ricette del mondo della salumeria. Le carni del suino, opportunamente lavorate e conservate, rappresentavano la più rilevante fonte di proteine nobili, indispensabili ingredienti di condimento e cottura durante il corso dell’anno, durante il quale il consumo veniva attentamente graduato, osservando per i singoli prodotti il tempo più adatto e l’uso più appropriato. Il tempo e l’uso dipendevano, da una parte, dalla diversa stagionatura richiesta dai singoli prodotti e, dall’altra, dal periodo dell’anno nel quale ci si trovava e, quindi, dai lavori agricoli del periodo, che rendevano più confacente “mettere a mano”, come si diceva, un prodotto o un altro. Alcune parti pregiate del suino macellato, in particolare i prosciutti, venivano talora vendute per l’acquisto di altri prodotti necessari alla famiglia rurale, come il sale, l’olio, lo zucchero, i capi di abbigliamento. Per la stagionatura, i salami, dopo essere stati tenuti qualche giorno in un locale aerato e leggermente riscaldato (vicino alla cucina) per farli asciugare, venivano trasferiti in un locale idoneo, fresco, in genere la cantina, appesi alle travi ad opportuna distanza in modo che i singoli pezzi non si toccassero mai tra di loro, perché questo dava luogo a marcescenza. Stessa prassi veniva riservata ai cotechini, anche se questi erano destinati al consumo entro uno o due mesi. I prosciutti, le pancette e le coppe, aperte, venivano tenuti per circa dieci giorni in un locale asciutto, su assi di legno per la salatura. Dopo questo tempo, il norcino ripassava presso la famiglia rurale, in particolare per la legatura delle pancette e delle coppe. Queste ultime erano avvolte e legate nella pellicola della vescica del maiale, opportunamente conservata. Anche sommità e base delle pancette, non coperte dalla cotica, venivano coperte con la stessa pellicola. Con l’occasione della seconda venuta, il norcino sentiva se si erano presentati dei problemi per i prodotti lavorati, per porvi rimedio. Le pancette e le coppe, da questo momento, venivano trasferite nello stesso locale nel quale erano stati collocati gli altri salumi, mentre i prosciutti rimanevano in salatura ancora per qualche settimana, poi, venivano sugnati e, almeno per i primi mesi, tenuti a stagionare in un locale più aerato. Il padrone di casa si faceva carico di seguire l’andamento della stagionatura di tutti i pezzi, per consumare, eventualmente subito, i prodotti che presentassero sintomi di difetti, di cattivo odore. L’uccisione del maiale portava una ventata di novità nella cucina, allora molto povera. Durante l’anno si utilizzavano i vari pezzi che la lavorazione dell’animale forniva. I salami, che per i bambini erano i preferiti di tutti i prodotti, venivano tagliati per qualche emergenza, in occasione di festa o per una visita di riguardo, accompagnati da una bottiglia di vino bianco, raramente bevuto in casa. Le pancette venivano tagliate quando cominciavano i lavori estivi, durante la fienagione e la mietitura. Poi si consumavano le coppe, e da ultimo i prosciutti. A parte i primi giorni che seguivano la macellazione del maiale, per i prodotti deperibili e, peraltro, estremamente poveri di carne, perché costituiti soprattutto da ossa, in famiglia si faceva un uso molto controllato dei vari pezzi del maiale e a nessuno era concesso prelevarne liberamente qualcuno. Solo il padre poteva fare questo, e la sua era un’azione strettamente connessa alla necessità. Un salame durava diversi giorni; non se ne mangiavano mai più di tre fette ciascuno e i pezzi maggiori duravano, dopo il taglio, anche più settimane, mentre un prosciutto poteva durare anche più di un mese.
Dal punto di vista alimentare e gastronomico l’egemonia della carne suina non è mai stata posta in discussione in nessuna delle principali culture culinarie del mondo; parlano da sé le infinite specialità nazionali e regionali a base di carne di maiale. Tale alimento aveva tutte le rosee caratteristiche della prelibatezza e, oltretutto, era grasso, possedendo, dunque, la dote più ricercata in tempi in cui alla grassezza erano associate idee di prosperità, di ricchezza e persino di salute. Il maiale aveva quindi un ruolo fondamentale nella vita e nell’alimentazione umana e, in Italia, questo si applicava specialmente alle regioni settentrionali alpine, dove il clima non consentiva la coltivazione dell’olivo; così il lardo e lo strutto erano i principali grassi impegnati in cucina: infatti si parlava di “civiltà dell’olivo” e di “civiltà del maiale”, a quest’ultima appartiene, indubbiamente, il Piemonte. Quella con il maiale è stata una convivenza emblematica in quanto ricca di contraddizioni. Basti pensare ai tanti modi di dire, in cui il termine “maiale” diventa un insulto; oppure, con la letteratura anglosassone, George Orwell, in “La fattoria degli animali”, fa del maiale il personaggio rivoluzionario, diventato ripugnante tiranno; o, ancora, si pensi al “guardiano dei porci” che rappresentava il livello più infimo della scala sociale. Tuttavia, parallelamente, è sempre esistito un amplissimo filone culturale che, invece, riconosce ampiamente l’importanza del suo contributo: dai rituali precristiani e orientali, in cui il sacrificio o la presenza del maiale aveva un ruolo propiziatorio, fino al Medioevo, quando il maiale compare anche nell’iconografia religiosa. Infine il maiale è da sempre emblema di abbondanza e convivialità. Si pensi al carnevale in cui era usanza mangiare carne di maiale per l’ultima volta prima del periodo di quaresima; bisognava quindi approfittare con celebrazioni, accompagnate da grandi abbuffate e pubbliche distribuzioni di cibo, spesso a base di maiale. In Piemonte ne sono un esempio le molte sagre e feste paesane a base di fagioli e cotiche, salsicce e polenta, salumi e fritture. Nella nostra Regione il maiale sta vivendo una nuova stagione, dopo essere stato messo per anni alla berlina come cibo “poco sano”, o comunque non compatibile con le moderne esigenze alimentari. Questo recupero si radica tanto nella generale riscoperta di aromi e sapori tradizionali, quanto in una politica della qualità che tale riscoperta ha accompagnato e sostenuto, consentendo di ritrovare o far conoscere prodotti che sembravo destinati all’estinzione, e di dare un senso nuovo ad altri di essi che, in virtù della loro stessa diffusione, rischiavano di perdersi nell’anonimia del mercato massificato dei prodotti industriali. L’evoluzione dei tempi ha radicalmente mutato, negli ultimi cinquant’anni, il modo di confrontarsi con l’alimentazione in tutti i suoi aspetti. I criteri e le abitudini alimentari degli italiani hanno subito un primo stravolgimento nel secondo dopoguerra, con l’aumento del benessere economico generalizzato e con l’introduzione di una serie di innovazioni tecnologiche che hanno permesso trattamenti semplificati degli alimenti e, conseguentemente, hanno consentito l’estensione dei periodi di conservazione degli stessi. Una seconda rivoluzione è iniziata circa 10/15 anni fa ed è stata orientata verso la ricerca della qualità. Alla fine della seconda guerra mondiale si desiderava vincere la fame di gran parte della popolazione; l’obiettivo da raggiungere era rappresentato da una alimentazione abbondante e ricca di principi nutritivi, fino ad allora pressoché assenti, accessibile a tutti. Successivamente, gli eccessi consumistici e le continue crisi alimentari, che hanno minato la sicurezza del consumatore, hanno generato un’inversione di tendenza orientata verso la qualità dell’alimentazione. L’eccellenza applicata alle produzioni agroalimentari diviene così l’obiettivo da perseguire: cibarsi poco (o comunque meno di prima) ma meglio. Per raggiungere tale obiettivo si presenta, quindi, la necessità di una riflessione sui criteri di selezione delle materie prime e sulle tecniche di trasformazione. Dopo la corsa al ribasso dei prezzi dei generi alimentari, iniziata addirittura alla fine degli Anni Cinquanta, si è capito che “buono è bello e magari fa pure bene” e, soprattutto, che “buono a basso costo non sempre è possibile, eccellente mai”: ecco, quindi, la rivincita del prodotto caratteristico e che presenti anche legami con il territorio.
fonte: Regione Piemonte Con la LR21/97 la Regione Piemonte assegna un ruolo importante all’Artigianato Artistico e Tipico di Qualità per salvaguardare e rilanciare lavorazioni artigianali di antico prestigio che, pur nel rispetto della tradizione, possano reinterpretare il passato attraverso le tendenze culturali ed estetiche del presente. Bibliografia Domenico Vera, L’allevamento del maiale in epoca romana, www.museidelcibo.it Alda Tacca, Il maiale del Medioevo ai nostri giorni, www.museidelcibo.it Romeo Medici, Il maiale nella tradizione rurale, www.museidelcibo.it Elenco aggiornato dei Prodotti agroalimentari tradizionali del Piemonte, Bollettino Ufficiale Regione Piemonte, giugno 2002 Sandro Doglio, Dizionario di gastronomia del Piemonte, Daumerie Editrice 1995 www.salumi-italia.it
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