Una tradizione popolare di Langhe, Monferrato e Roero raccontata dalla nostra viaggiatrice preferita Manuela Vullo.
La vita delle comunità rurali di Langhe, Monferrato e Roero era scandita da un fitto calendario di riti e tradizioni sviluppate nel corso dei secoli e legate al ciclo delle stagioni e alle festività cristiane. Erano momenti di aggregazione fondamentali, indeboliti e poi scomparsi in seguito all’emigrazione e ai cambiamenti sociali avvenuti nel Novecento.
La questua delle uova, in dialetto cantè j’euv, era una delle più sentite, collegata al ritorno della primavera e buon auspicio per la rinascita della natura.
Nelle notti di Quaresima, quando gli abitanti delle cascine erano già a letto, gruppi di giovani si spostavano a piedi da un cortile all’altro e intonavano nelle aie canzoni tradizionali, accompagnandosi con fisarmoniche, clarini e tamburi, aspettando che il padrone di casa si alzasse dal letto per regalare loro le uova. Le strofe dei canti di questua erano particolari e adattate di volta in volta alla famiglia che si stava visitando: una strofa galante per le ragazze da marito, un invito al capofamiglia a non essere avaro, una parola di conforto per la vedova, una lode alle doti culinarie della padrona di casa e in generale, auguri di prosperità per il futuro, fino ad arrivare alle maledizioni nei confronti di chi, fingendo di non svegliarsi, non accendeva il lume o si dimostrava poco ospitale.
Il canto iniziava quasi sempre con un saluto al padrone e alla sua famiglia:
Buna seira, sur padrộn
E tuta la gent di casa:
Suma vnù a cantè e sunè,
Per fe-ie la serenada.
Se lor volu ch’i canto,
E nui i canteruma;
Se volu nen che canto,
E nui s’ n’ anderuma.
Buona sera, signor padrone
E tutta la gente di casa
Siamo venuti a cantare e suonare
Per farvi la serenata
Se loro vogliono che noi cantiamo
Noi canteremo
Se non vogliono che cantiamo
Noi ce ne andremo
Il cantè j’euv coinvolgeva vari aspetti della vita comunitaria. Aveva una funzione di aggregazione per i giovani, che si riunivano con spirito goliardico per riprendere la via dei campi dopo i lunghi mesi invernali; le uova solitamente erano utilizzate per preparare abbondanti frittate da consumare insieme il giorno di Pasquetta, coinvolgendo tutto il paese, o venivano vendute per pagarsi la festa dei coscritti. L’usanza aveva anche una finalità di ridistribuzione del reddito: chi andava a “cantare le uova” era quasi sempre di modesta estrazione sociale e il canto si rivolgeva soprattutto a quelle cascine dove c’era abbondanza di animali e di mezzi economici.
I ragazzi con il pretesto della questua delle uova facevano la corte alle figlie del padrone di casa, a cui rivolgevano complimenti nelle strofe delle canzoni, e molti matrimoni nacquero così, permettendo alla comunità locale di perpetuarsi e di rimanere coesa.
Il canto delle uova era vietato alle donne, sia perché tradizionalmente esse non dovevano partecipare a tempi di festa carnevalesca e profana, sia perché si svolgeva durante le ore notturne, quando le donne dovevano essere in casa.
La tradizione si estinse inesorabilmente dopo la Seconda Guerra Mondiale, con l’emigrazione dei giovani verso le grandi città del Nord che offrivano molte possibilità di lavoro nell’industria. Un primo tentativo di recupero avvenne nel 1965 a Magliano Alfieri e fu accolto con entusiasmo. Da allora molte comunità ripropongono la tradizione, portando generazioni diverse a ritrovare il piacere di mettersi in cammino nelle sere di primavera, esprimendo nel canto e nella musica il desiderio di ritrovarsi insieme.