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(Estratto da “Il platano”, rivista di cultura astigiana, Asti, anno II Numero 3 – Maggio – Giugno 1977, pp 31-37)
Possiamo dare al termine tradizione popolare la maggiore estensione possibile e comprendere in esso il linguaggio, il canto, le feste, la religione, la danza, il lavoro, il sentenziare del popolo, tutto quanto insomma investe la vita popolare negli innumerevoli aspetti che essa presenta, nelle cerimonie e nelle usanze che accompagnano la vita di un uomo. Protagonista il popolo nel significato più vasto; quel popolo che è tutto un tessuto di immagini e di proverbi, espressivo e religioso come quello di Omero, attivo e prudente come quello di Esiodo; quel popolo che ancor oggi accompagna ogni suo desiderio, ogni suo pensiero per il futuro con un riverente: se Dio vorrà.
Si tratta di quel popolo che parla per lo più il dialetto, in cui tramanda di generazione in generazione i suoi più significativi modi di dire. E’ infatti il linguaggio uno degli elementi più caratterizzanti di una gente, le cui espressioni continuano ad essere vive attraverso i secoli e ai presenti ricordano i tempi antichi e antichissimi di quel popolo di cui fecero parte i loro padri, i loro nonni, gli avi, i più lontani antenati.
Gli Astigiani di oggi non hanno difficoltà a comprendere espressioni idiomatiche come queste: a l’ha semper freid ai pé (felice comparazione con chi è così povero da aver sempre le scarpe bucate che rendono i piedi freddi ed umidi); oppure: l’han mangiaje fin-a le braje (riferimento un po’ compassionevole e un po’ ironico a chi si è lasciato portar via tutte le sue sostanze); oppure: fà ‘d patt ciair e parla poch (avvertimento che si accorda assai bene all’indole pratica dei piemontesi); e ancora: mostré ai gat a rampigné (satira della smania di insegnare a qualcuno cose di cui egli è già maestro); e tante altre espressioni che riguardano fenomeni meteorologici tra le quali questa: se pieuv al Vener Sant a pieuv Magg tutt quant, se pieuv nen s’la rama d’uliva, a Pasqua l’acqua a riva; altre riguardano la farmaceutica popolare, che talvolta argutamente s’infischia dei medici, tra le quali questa: chi a pissa ciair s’anfot di médich.
Il concittadino Vittorio Alfieri fu motivo per gli Astigiani di una espressione che rimase a lungo viva tra il popolo: al giovane che studiava e prometteva ottima riuscita si soleva dire: testament d’Alfieri! (in modo veramente comico se si pensa che testament stava al posto di testa!). Un’altra espressione legata ad una figura leggendaria continua ancor oggi la sua vita, se le filodrammatiche locali (recentemente la Compagnia A. Brofferio) s’impegnano a riesumarne le vicende. L’espressione è questa: Gelindo ritorna! Gelindo ritorna! con cui si proverbiava colui che in procinto di partire non si decideva mai e poi finalmente se ne andava, ma per ritornare subito dopo e faceva ciò cinque o sei volte di seguito. Gelindo ritorna! E Gelindo simpatica figura di pastore che con le sue parole scherzose rallegrava i suoi compagni, ritornava effettivamente ogni anno, alla vigilia di Natale, nelle sacre rappresentazioni che si realizzavano presso le emblematiche capanne del Presepio.
Il nostro popolo con questo linguaggio viveva la sua poesia e cantava i suoi canti. Erano canti anonimi che non avevano pretese d’arte e tuttavia ci appaiono così significativi di situazioni e di momenti di gioia o di tristezza, di illusioni o di delusioni; così li troviamo nelle raccolte di canti monferrini, dove tra i molti che si cantavano specialmente nelle feste di maggio, notiamo quelli sul fascino delle fanciulle, per esempio della bella Margheritin, o sulla prelibatezza di semplici cibi tradizionali per esempio della polenta spalmata di cacio; altri sono i canti dei coscritti, altri i canti degli emigranti nei primi decenni del secolo, epoca in cui si sentiva cantare in Asti la nenia lamentosa che accompagnava il contrasto tra il figlio che voleva partire per l’America e la madre che gli si opponeva, mentre il fratellino interveniva a perorare la causa del partente; il figlio: Mamma mia dammi cento lire che in America voglio andar; la madre: Cento lire te le dò, ma in America no no no!; il fratellino: Mamma mia laselo andé! ma quando l’emigrante si trovava in alto mare, mentre il bastimento stava per affondare, così mandava al cielo le sue ultime parole: Maledetto il fratellino che m’ha dato la libertà. Ma erano soprattutto canti di maggio; tradizione antichissima che risale ai floralia dei pagani e fu esaltata dal calendimaggio fiorentino del Rinascimento, passò in Piemonte, giunse in Asti, dove i giovani della città e della campagna il 1° maggio o la prima domenica di maggio, si riunivano in gruppetti che avevano al centro una bella fanciulla assai ben adorna, andavano a bussare alle porte e così cantavano: Guardè la nòstra sposa, coma l’è ben dobà, as mìa el fior dël persi quand ca l’è botonà, ricevevano un qualsiasi regalino e ne andavano via contenti.
Tra le feste molto seguite in maggio vi era quella che aveva al centro la corsa d’jaso a Quart, per cui si ricorda un sonetto del 1843, che incomincia: Bsògna che n’a vòta jaso aveiso j’ari. Ma la festa delle feste era quella patronale di S. Secondo, di cui non si può esattamente rintracciare l’origine, ma di cui si sa che era già importante nel 1100, se si legge che in quell’anno il comune di Asti obbligava i suoi feudatari a partecipare alla festa annuale del Santo custode Secondo, portando una torcia. Poco più tardi vennero i fuochi artificiali, l’incrementata fiera carolingia, il Palio, con tutte le cerimonie religiose e civili che l’accompagnavano. In un primo tempo il giorno celebrato era il 30 marzo, ritenuto il giorno anniversario del martirio del Santo, poi fu la domenica in Albis, poi il giovedì dopo questa domenica, quindi nel 1818 si fissò il 1° martedì di maggio. Due erano le celebrazioni religiose, una nella collegiata di S. Secondo, l’altra nel capitolo della Cattedrale. Nella mattinata di domenica il Vescovo assisteva alla Messa nella cattedrale, presenti in appositi banchi tutte le autorità cittadine; poi solennissima processione con tutto il clero, le confraternite, il sindaco e tutti gli impiegati municipali, seguiti da gran folla (itinerario: via Cavour (l’odierna via Gobetti), corso Alfieri fino alla Torre Rossa con ritorno per corso Alfieri, via Roero, via Q. Sella, l’odierna piazza Statuto fino alla Collegiata: qui, davanti alla chiesa benedizione e concerto di trombe. Il lunedì cominciavano le funzioni nel Capitolo della Cattedrale, dove si concludevano il martedì; in questo giorno messa solenne alle dieci a cui partecipavano – vi irrompevano a tamburo battente e al suono delle trombe a messa iniziata – i municipali al completo, accompagnati dal Collegio dei Procuratori e preceduti dalla banda cittadina e si disponevano davanti alle cappelle laterali dedicate al Santo Patrono; all’offertorio il Sindaco, accompagnato da un valletto si accostava all’officiante e gli presentava il Palio, mentre il Presidente dei Procuratori gli offriva una torcia e alcune monete antiche. Finita la messa tutti si recavano, sempre al rullo dei tamburi e al suono delle trombe, al Palazzo di Città. Alle feste religiose si intrecciavano, come oggi, quelle civili in particolare i fuochi artificiali, la grande fiera, il Palio.
Lo spettacolo pirotecnico si svolgeva alla vigilia del giorno consacrato al Patrono, cioè dal 1818 al lunedì sera. Si sa dalle cronache che i bagliori dei fuochi policromi – veramente straordinari e di grande fama – giungevano fino alle più lontane colline dell’astigiano e del Monferrato, cosicché coloro che non avevano potuto trovare posto in uno dei tanti carretti a molle, che trasportavano le folle rurali in città, portandosi in qualche luogo scoperto, potevano godere da lontano la suggestività dello spettacolo. Dopo i fuochi vi era l’illuminazione delle contrade e specialmente della Contrada Maestra (l’odierno corso Alfieri), della contrada di Turinetto (l’odierna via Garibaldi), nel borgo di S. Pietro e in quello di S. Caterina. L’illuminazione era composta da moltissime candele alle finestre e da fanali e lanternoni per le strade (S. Caterina si vantava di avere i più belli, larghissimi, composti di sessanta fogli di carta reale); vi erano anche molti striscioni con iscrizioni di questo genere: Asta laeta gaudens Secundo Concivi patrono. Advena, quot vides plausus Secundo dicantur (soprattutto nella contrada che da S. Martino portava a S. Anastasio).
Dopo la straordinaria fiera a cui affluivano genti da tutta Italia e anche dall’estero, ecco la attesissima corsa del Palio. La corsa è tradizione antichissima, se cronacando il XIII secolo Guglielmo Ventura poteva scrivere che nel 1275 gli Astigiani corsero il Palio; la tradizione si mantenne anche dopo il tramonto della gloriosa indipendenza comunale, durante le signorie degli Angioini, dei Marchesi del Monferrato, dei Visconti, dei Duchi d’Orleans e dei re di Francia.
Passata la Contea Astese in dominio dei Savoia, la tradizionale corsa fu ancora più fastosa e si svolse lungo la via maestra fino al 1860, anno in cui la corsa cominciò ad effettuarsi sulla piazza del mercato, costruita allora, ma venne a perdere in parte la fisionomia antica. Rimase e rimane tuttavia una delle manifestazioni più folcloristiche d’Italia, anche se Siena, con il suo Palio vanta la priorità dell’origine della corsa.
Attraverso le cronache astensi dei secoli passati noi possiamo conoscere innumerevoli particolari di tale corsa, che ancor oggi vive ripetendo motivi, cerimoniale, costumi del tempo passato. Tanto per ricordare qualche particolare momento, si può risalire ad alcune pagine dell’Incisa che ci racconta che quando nel 1796 il Palio fu vinto dai Torinesi (alla corsa potevano partecipare anche forestieri), si celebrarono feste ancor più solenni del solito; i Torinesi furono accompagnati dagli Astigiani in corteo di carrozze fino a Moncalieri (i nostri concittadini pagarono allora fino a 40 lire per piazza, cioè per posto – prezzo folle!) dove furono accolti da trecento cavalieri seguiti da duemila militi a piedi; questo enorme corteo, entrato in Torino per la porta Po raggiunse la piazzetta reale dove il Re gradì assai l’omaggio del Palio vinto dai Torinesi ad Asti.
Per vedere questa corsa affluiva in Asti gran folla di Siondini a che dal giorno prima si sistemavano in casa di parenti, amici e conoscenti. Finita la corsa tutti insieme astigiani e Siondini andavano a bere nelle osterie che si trovavano numerose e assai frequentate nella nostra città.
A proposito del fervido culto di Bacco dei nostri concittadini dei tempi passati possiamo leggere un lungo elenco delle osterie che facevano bella mostra in Asti alla fine del 1700 e inizio 1800; è stato fatto da un libraio, di nome Tessiero, che si dilettava di tali statistiche mentre attendeva alla sua attività di libraio nella bottega che possedeva, naturalmente sotto i portici dei Librai, che sono quelli che attualmente vediamo a sinistra della via Gobetti. Egli dunque ci enumera cinquantadue Hosterie tra le quali famose figurano il Lion d’oro (in contrada maestra, vicino al Palazzo degli Spagnoli, che forma angolo tra corso Alfieri e via del Teatro) che primeggiò fino al 1793 quando s’inaugurò a l’oberge Reale sul principio del Borgo di S. Maria Nuova; e l’osteria dei tre Ciochini vicino alla Chiesa di S. Caterina (rimase con il nome cambiato in tre Campanelli fino al 1951); un’altra importante osteria tenne a lungo l’insegna in Borgo S. Maria Nuova, quella del Pesce, salita poi al rango di albergo del Pesce d’oro. Tante altre appaiono citate tra cui il Muletto e la Stella (vicino alle prigioni che erano in contrada Natta, ora Q. Sella), la Mosca d’oro (in piazza delle Grazie che è oggi piazza Astesano); e ancora l’albergo del Cervo, che aveva la sua sede presso il brutto e maleodorante mercato coperto che dopo una vita di circa quarant’anni fu abbattuto una cinquantina d’anni fa. Per costruirlo avevano abbattuto la famosa vecchia drogheria di Monsu Galet che divideva una piazzuola in due piazzette, rispettivamente Piazza delle Erbe (verso il Santo) e piazza del Riso (verso l’attuale via XX Settembre), che nel 1860 furono riunite con il nome di piazza delle Erbe.
Accanto alla tradizionale festa patronale tante altre ve n’erano per i goderecci astigiani. S’incominciava con il I° gennaio, giorno delle strenne in cui, per dirla con l’Incisa, la città tutta era in parte molestata e in parte beneficiata dalla strenna che i garzoni dei panettieri, dei macellai, insomma di tutti i negozianti, andavano a chiedere ai loro clienti, convinti di aver meritato un premio per i servizi resi durante l’anno; veniva poi la festa del 17 gennaio, di S. Antonio abate, in cui venivano riuniti davanti a determinate chiese i cavalli e gli asini, che ricevevano una speciale benedizione – questa era la festa degli asinari -; al 20 gennaio i brentari festeggiavano il loro protettore S. Sebastiano nella Chiesa di S. Paolo, dove ancor oggi si conserva una statua del Santo.
Veniva il Carnevale e gli Astigiani si divertivano tra Balli e Marionette e il taglio del collo dell’oca sulla pubblica piazza; poi vi erano le recite dei filodrammatici dilettanti e, a chiusura dei divertimenti carnevaleschi, gli spettacoli dell’opera buffa, che tennero per molti anni il cartello nel palazzo Malabajla e dal 1812 nel teatro d’Asti, nella ex chiesa di S. Bernardino.
In Quaresima, tolta la parentesi di S. Giuseppe celebrata dai falegnami, ebanisti e minusieri nella Chiesa della Consolata, gli Astigiani meditavano sui loro peccati e specie le donne erano devote e si congregavano nella confraternita delle Umiliate, nella Chiesa di S. Giovanni presso il Duomo. Tra le molte processioni di quel periodo dell’anno, certamente la più impressionante era quella del Sacro Enterro, cioè la sepoltura di Cristo, istituita nel 1694 dal Vescovo Migliavacca; vi partecipavano tutte le Confraternite, i corpi musicali, il Sindaco e i consiglieri, i nobili seguiti da tutto il popolo; usciti dalla Chiesa della Misericordia che era all’angolo di Via del Tribunale e piazza Catena (abbattuta non molti anni fa per far posto all’attuale palazzo di Giustizia) percorrevano la piazza Catena, costeggiavano il Vescovado, passavano per via dei Varroni, poi davanti al Monastero di Gesù (occupato dal Michelerio), svoltavano in contrada Maestra, per giungere a piazza del Santo, quindi ritornare alla Misericordia, dove si tumulava il cataletto sotto l’altar maggiore. Nei successivi mesi dell’anno gli Astigiani, secondo la loro arte, cioè il loro mestiere, facevano altre feste; i lavoranti della seta festeggiavano S. Giobbe in Aprile e sempre in Aprile i servitori ed i carrozzieri festeggiavano S. Vitale; il Lunedì di Pentecoste i parrucchieri ricordavano il beato Amedeo di Savoia e il 24 giugno i pellicciai si rivolgevano a S. Giovanni Battista; in Ottobre S. Crispino era festeggiato dai calzolai, in Novembre S. Omobono era invocato dai sarti e mercanti e in Dicembre S. Lucia dai ciabattini.
Durante queste giornate di festa gli astigiani non andavano soltanto in chiesa a pregare ma si dedicavano con fervore anche alle danze; da sempre la danza risponde a una esigenza spirituale del popolo e sempre fu presente nelle feste a carattere popolare. Nella nostra città s’impose e fu viva fino a non molti anni fa la tradizione della Corenta e del Corenton. La Corenta era una specie di veloce tarantella che metteva alla prova la resistenza dei ballerini; alla fine di essa, richiesto a gran voce da tutti era il Corenton, danza più indiavolata e matta della Corenta. Sovente il Corenton era preparato dagli organizzatori del ballo, gli abbà, i quali cercavano di rifarsi delle spese di allestimento della festa; si poneva all’asta un mazzo di fiori, asta che veniva più volte interrotta per permettere all’ultimo offerente di ballare una sua danza al centro di tutti gli altri ballerini; dopo ogni sosta l’asta riprendeva più animata fino a che, cessate le offerte e aggiudicato il mazzo di fiori al più alto offerente, si ballava in onore di lui l’ultimo Corenton, che pareva non dover più finire. Spesso questa danza diede luogo a vari conflitti con percosse a sangue tra i giovani che volevano portarsi via il trofeo; si usò infatti l’espressione: l’han faje balè ‘l corenton, per dire che le avevano suonate a qualcuno. Non possiamo non citare la ben nota monferrina che costituisce oggi motivo di rinnovamento folcloristico.
Anche le leggende fanno parte delle tradizioni popolari. Si è mantenuta viva fino ai nostri giorni la leggenda intorno al personaggio di Giandoja, che viene raccontata in diverse versioni le quali tuttavia concordano tutte nel ritenere questa simpatica figura nativa di Callianetto. Si chiamava Girolamo della Grigna e possedeva uno speciale talento satirico che gli permetteva di far risaltare il lato comico delle persone e delle cose; la sua lingua era perciò abbastanza temuta. Egli, tuttavia, in determinate occasioni, nascondendo le risorse del suo ingegno, fingendo ignoranza, riusciva a meraviglia a fare il cretino (per esempio per non pagar dazio). Essendosi dunque la fama di questo Girolamo della Grigna diffusa in tutto il Piemonte, le autorità temendo che quel nome portasse, sia pure indirettamente, pregiudizio a quello di Girolamo Bonaparte, costrinsero il nostro Girolamo ad assumere altre generalità, ciò che quel bello spirito fece di buon grado e da quel recipiente, che portava sempre con sè, ben pieno di vino e che in dialetto si dice doja, si chiamò con un nome che era tutto un programma Gian dia doja cioè Giandoja. Particolarmente cara agli Astigiani fu questa leggendaria figura, insieme a tutto ciò che ad essa s’intitolava (come per esempio una piccola giostra di cavalli, detta giostra di Giandoja, perché portava alla cima una sua statuetta).
Nella figura di Giandoja si assommavano molte caratteristiche del nostro popolo bonario, amante del buon vino, apparentemente un po’ freddo, ma sempre pronto ad accendersi per ogni nobile causa. Il personaggio diceva di sé:
El me nom a l’è Giandoja
mè pais l’è Callianet
el mè stemma a 1’è na duja
el mè fido a l’è n’asnet;
Am pias Ast, am pias Turin
la polenta e ‘l bicerin
e per fé passé i sagrin
pijo d’le sbòrnie con ‘d bon vin.
Parrebbe un gaudente, ma non era soltanto questo, se ha insegnato ai suoi concittadini a comportarsi bene in ogni
occasione. Questi infatti, ricordandolo, così dichiaravano fieramente:
Noj soma i fieuj ‘d Giandoja
noj soma i bogianen;
ma guai se la testa an ròja,
guai se ‘l dì dla lòta el ven.
Un’altra leggenda aveva al centro il galletto di bronzo che ancor oggi spicca sul tiburio della Chiesa di S. Secondo in Asti, detto anche il galletto del Santo; esso dovette far parte di uno dei tanti bottini riportati nelle fortunate imprese della forte Repubblica astigiana che seppe estendere il suo dominio su gran parte del Piemonte. Quel gallo divenne, con felice simbolismo, il vigile custode della libertà del nostro comune e doveva vegliare sui nostri concittadini che lottavano in difesa del loro onore.
Un’altra leggenda circondava una chiesetta eretta in onore di S. Secondo, esattamente la Chiesetta di S. Secondo della Vittoria, che sorgeva fino ai primi decenni del nostro secolo, nella zona est del Pilone. La sua origine è questa: nel 1525, dopo la sconfitta di Francesco I, Asti dovette giurare sudditanza a Milano, dove mandò i suoi ambasciatori a rendere omaggio al luogotenente dell’imperatore Carlo V, Fabrizio Maramaldo. Ma costui che precedentemente era stato nella nostra città fiorente di tante ricchezze, pensò di venire ora da padrone per fare man bassa e infatti venne, ma trovò le porte della città chiuse. Pose il campo presso i bastioni detti di S. Pietro, bombardò le mura e minacciò rappresaglie; ma in quel frangente gli astigiani tutti si precipitarono a combattere con tutte le loro forze per cacciare l’usurpatore e riuscirono a fargli rimuovere le tende e a farlo ritornare a Milano. Si raccontò che nel momento cruciale di quella terribile battaglia comparve in campo a incoraggiare i suoi concittadini nientemeno che S. Secondo. Perciò a lui gli astigiani grati innalzarono una chiesetta nel luogo dove era stato visto.
Varie come la vita sono le tradizioni di una gente che attraverso molte di esse, arricchite e adattate ai tempi, trova motivo per sopravvivere, che è in fin dei conti il nostro vivere, se le tradizioni da tanto lontano sono giunte fino a noi, per indicarci la loro arcana vitalità che è fonte perenne di vita. Apparentemente possono forse configurarsi come un cumulo di rovine, un campo di persone morte; ma noi sappiamo bene che è dai nostri morti che deriva la nostra vita.
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